Storie di ordinaria follia letteraria. Quando la penna è un’arma impropria
Violazione di domicilio con effrazione seguita da danneggiamento di libri e dischi in vinile e avvelenamento di animale domestico. Strani omicidi contrassegnati da una stelletta incisa dietro l’orecchio di ciascuna vittima. E per finire il furto di uno scooter.
La vittima del primo e dell’ultimo crimine, danneggiato soprattutto negli affetti, è Vince Corso, un biblioterapeuta: esercita il mestiere – a cui lo ha condotto la disoccupazione – di suggerire libri come cura di varie malattie dell’anima che sempre più affliggono l’umanità. Ma il nostro non tarda a diventare anche il principale sospettato dei delitti.
Facciamo un passo indietro. Torniamo a un curioso antefatto: una lettera spedita al nostro protagonista da un detenuto. Potrebbe sembrare un elemento a sé stante, ma presto rivelerà il suo diretto collegamento con tutto il resto, così come i vari episodi criminosi fra di loro. Lo stesso dicasi dei tanti eventi e personaggi bizzarri, inspiegabili secondo una logica ordinaria, ma forse comprensibili se si esce dai soliti schemi dettati dalla comune esperienza.
Il variegato quadro è arricchito da diversi altri peculiari dettagli. Gli incontri per caso o per necessità con quello che ha tutta l’aria di un singolare circolo di lettura composto da non vedenti. Le passeggiate, fughe e smarrimenti per i meandri di una Città Eterna indolente, irrecuperabile e, forse anche per questo, sempre più suggestiva.
Vince Corso interpreta i vari ruoli che gli ha assegnato il destino con apprensione e disinvoltura. Veste i panni del detective involontario e dell’inquisito. Continua ad aiutare gli altri con i suoi suggerimenti letterari. Soffre per il suo simbiotico cane in coma farmacologico. Si consuma per un amore anch’esso in agonia e con altrettante scarse possibilità di recupero. Prosegue nella sua corrispondenza impossibile (fatta dapprima di cartoline e adesso approdata alla classica forma della lettera) con un padre che per lui non è mai esistito e a cui cerca di dare ospitalità in un sorta di vita immaginaria.
Un romanzo che prima di tutto si palesa come un atto di amore incondizionato nei confronti della letteratura, un rimarcare la sua essenziale e insanabile bellezza e inutilità (per parafrasare Oscar Wilde), un ribadire l’incomunicabilità fra gli esseri umani, magari ontologica, ma che la parola (quella scritta forse ancor più di quella parlata) sembra poter esasperare ulteriormente, tanto che (come confessa una paziente al nostro bliblioterapeuta) in essa non si può più credere. Il verbo minaccia. Allo stesso tempo, è soltanto da lì che può arrivare l’unica possibile salvezza, il tanto agognato risarcimento per i danni subiti nel corso delle nostre esistenze.
La narrazione si snoda, con pathos e suspense, fra speranza e nostalgia. L’azione e la riflessione si alternano con perfetto tempismo. Sono guidate dal profondo bisogno di avere riposte che forse non arriveranno mai. Ma il complesso e sfaccettato intrigo poliziesco avrà un’esauriente e sorprendente soluzione. E questa mostrerà una volta di più che il movente può rivelarsi anche più importante del nome dell’assassino, soprattutto quando è partorito da istinti e sentimenti vitali e universali.