L’antro dei filosofi (di Giorgio Scerbanenco)

Giustizia e morale protagoniste di un giallo raffinato e salace, in perfetto equilibrio fra tradizione e innovazione

Una famiglia, bigotta e perbenista, la cui esistenza è ispirata alla ricerca dell’espiazione e in seno a cui è stata istituita una singolare tradizione: ciascuno ogni sera mette tutti gli altri a conoscenza dei propri peccati. Una confessione quotidiana che può rievocare la distaccata sistematicità di un briefing aziendale, l’impersonale ritualità di una pratica burocratica, governata dal principio di verità e da quello di giustizia: due diversi lati (così viene asserito) della morale. Questa realtà, strana e imperturbabile, è sconvolta dapprima da un’improvvisa sparizione e poi da due morti sospette. Alle fine l’enigma verrà sciolto. E la verità potrà forse sconcertare ancor di più di quanto non abbia potuto il crimine.

La storia si svolge in una Boston dai riferimenti talora evanescenti e che pare perlopiù ricordare, più che la nota città statunitense, luoghi assai più familiari all’autore. L’investigatore è sui generis e difficilmente accostabile ad altri suoi colleghi letterari.

Giorgio Scerbanenco pare mettere alla berlina la società e la politica dei tempi in cui scrive. A partire dall’evidente antinomia presente nel titolo: bestialità e intellettualità accostate per sminuirsi a vicenda e in qualche modo annullarsi. I proclami moralistici, esternati in particolare da un membro della singolare compagine familiare, sembrano riecheggiare mutatis mutandis quelli già uditi in certi cinegiornali d’epoca. La stessa ambientazione, che potremmo definire astratta e altresì improbabile, ci fa forse meglio cogliere le storture di questo mondo di carta, in cui paiono rispecchiarsi molte contraddizioni di quello reale.

L’autore (considerato forse soprattutto come insigne rappresentante del noir) qui ci dimostra di essere un maestro nell’ambito del giallo deduttivo, in cui si destreggia con disinvoltura fra tradizione e innovazione.

Si diverte a giocare con l’archetipo letterario in questione. E, come spesso accade in questi casi, lo stravolge. Ma non più di tanto. Dimostra di conoscere assai bene le regole, di padroneggiare alla perfezione i meccanismi del genere. E se l’ambientazione per molti versi può divergere dallo schema tipico, non sembra potersi dire altrettanto dell’intreccio. Se costui – diversamente dalla maggior parte degli esponenti del giallo classico soprattutto di matrice anglosassone – utilizza l’intrigo poliziesco per scopi che possono andare anche oltre il mero intrattenimento, ciò non pare affatto sminuire l’abilità con cui costruisce il rebus ed escogita una soluzione clamorosa e allo stesso tempo coerente con gli indizi sapientemente disseminati nel corso della narrazione.

In questa sua quarta apparizione, ci affascina con immutata suggestione questo nuovo tipo di investigatore: Arthur Jelling, ex archivista della polizia promosso detective sul campo. Costui (per certi versi, un tenente Colombo ante litteram) sembra quasi remissivo, svampito, restio a mostrarsi autoritario nei confronti dei sospettati, eppure, al momento giusto, è capace di sorprendere tutti, collocando ogni pezzo del puzzle al proprio posto. La sua è (come egli dichiara) una “psicoindagine”: un peculiare metodo con cui induce il reo “a confessare la sua colpevolezza stringendogli attorno una tale maglia di osservazioni minute e psicologiche” che egli non può più sfuggire e deve darsi per vinto.