Il suono del nulla (di Leonardo Nuti)

Si svegliò di soprassalto, in preda a un qualcosa che assomigliava tanto al panico, scosso da una sveglia che non riusciva a raggiungere, per fermarla, per impedirle di nuocere ancora alle sue orecchie, al sonno interrotto, a sogni infranti per sempre. Ma la sveglia non c’entrava proprio un bel niente; se ne stava lì come nulla fosse, puntata ben sei ore più tardi. Il suono invece proseguiva imperterrito, immotivato, indecifrabile. Non si trattava di un antifurto, di un allarme, della sirena di qualche mezzo di soccorso o delle forze dell’ordine. Non si trattava di niente che lui conoscesse … né che non conoscesse. In quel suono monocorde e inspiegabile avvertiva infatti un qualcosa di già sperimentato nella sua vita, ma non gli era facile capire cosa. Sul momento, aveva pensato a una pompa di irrigazione o un’autoclave, ma che lui sapesse non esisteva né l’una né l’altra in quel condominio di periferia poco illuminato e quasi mefitico. Riflettendoci meglio, gli giunse il ricordo del rumore che si sente su di un traghetto, soprattutto se si viaggia nella quiete di una notte in alto mare. Ma neanche questo poteva aiutarlo, visto che sotto i piedi aveva la terraferma.

In mezzo alla strada, si sarebbe aspettato di trovare il mondo intero in libero sbarco (di nuovo in qualche modo gli veniva in mente il mare), e invece neppure un’anima viva a porsi i suoi stessi dubbi, a cercare di capire, a fargli un minimo di compagnia mentre camminava sulle orme frenetiche della sua ombra sfuggente e allampanata. Le finestre erano quasi tutte chiuse; oppure così sembrava. Probabilmente non avevano bisogno di aprirle, nonostante l’inclemente afa notturna, perché dormivano in compagnia di condizionatori a tutta valvola capaci di coprire ogni rumore. Oppure, sebbene si fosse ormai agli sgoccioli di agosto e dell’estate, dovevano ancora tornare dalle ferie.

Lo strano era che a qualche decina di metri si continuava ancora a udire un sibilo; sebbene il fastidio scemasse nettamente.

Il locale notturno dietro l’angolo era chiuso, circostanza non poi così singolare, visto che il suo orologio indicava le tre passate. Ogni tanto usciva qualcuno, presumibilmente gestori e lavoranti, ma tutti se ne andavano in sella alle loro moto oppure sparivano dentro le loro auto sportive come niente fosse.

– Ma a me cosa me ne importa?! –

Finalmente l’uomo si pose un quesito che avrebbe dovuto porsi da un’infinità di tempo. Alla buon’ora – erano infatti ormai quasi le quattro del mattino! – si avvide che lo strano suono, anziché indagarlo, sospettarlo come il peggiore dei criminali, avrebbe dovuto ringraziarlo come non mai, se era proprio grazie ad esso che si era svegliato dal suo torpore negligente, imperdonabile, addirittura pericoloso; ma soprattutto avrebbe dovuto approfittarne per tornare in casa e prendere la sua borsa di lavoro, perché il suo turno ancora non era affatto finito.

Mentre percorreva rapido e frenetico la via, si pose una nuova domanda: perché aveva indugiato così tanto per risolvere enigmi che a lui mai avrebbero potuto né dovuto interessare?

– E’ l’invidia – pensò, e forse lo disse anche, per quanto questo potesse importare in quell’intramontabile atmosfera di deserto.

– Può succedere anche in una notte così; anzi, in circostanze come questa più che mai – rifletteva mentre prendeva il suo vecchio borsone, tirandolo su con molta più fatica di quando tanti anni prima aveva iniziato quel lavoro in fondo ingrato.

– La gente che non esce nemmeno al cospetto di rumori così insoliti, è gente che se ne sta a sguazzare al mare, oppure a ripulirsi i polmoni in montagna, che mai a e poi mai passerebbe un’intera estate di afa e noia in una città così tetra e deludente da non regalarti più neppure la gioia della speranza – proseguiva nell’analisi, una volta fuori dal cancello, sperso di nuovo in quella strada resa ancora più anonima dalla luce asettica dei lampioni e dal vuoto assoluto che continuava con insistenza a rimanersene lì.

– E’ questa la gente che invidi di più, che dorme tranquilla, il sonno dei giusti, rannicchiata alla frescura di un condizionatore, con la compagnia giusta, gli affetti più pieni, circondata da un clima adatto in tutti i sensi – si ammonì, mentre virava rapido dentro il primo vicolo che intercettava la strada, approssimandosi così alla sua auto.

– L’invidia è questo. E’ quando gli altri li ammiri, li elogi. Magari, non lo sai neppure tu, ma in qualche oscura parte di te è proprio così – concluse il vecchio uomo, mentre metteva in moto la sua auto, vecchia anche lei ma in fondo molto più affidabile di lui.

In quel momento, l’oscuro rumore cessò. Forse era occultato dal motore acceso. Spense quel brontolio, ma del suono ignoto sembrava persa ogni traccia. Magari, si era già esaurito da prima … da molto prima … non era mai esistito … l’aveva immaginato … inventato perché il vuoto e il silenzio incessanti della sua vita potessero prendere un po’ di corpo, assumere un tono sostanzioso, profondo, capace di far vibrare anche un vecchio rottame di passione … e pure a costo di rischiare grosso!

L’uomo non avrebbe mai conosciuto l’esatta genesi della sinistra melodia, non avrebbe mai saputo se potesse trattarsi veramente del suono del nulla, né se il ben noto sibilo acuto e stridulo che udì in lontananza mentre stava per imboccare l’autostrada fosse l’esatta evoluzione dell’oscuro motivo che lo aveva fin lì perseguitato. E neppure, avrebbe mai potuto sapere se, in definitiva, fosse stata la solita invidia che lo aveva contagiato per l’ennesima volta, in una forma questa volta più subdola, a fargli imboccare quel maledetto divieto di accesso, piuttosto che sentimenti più ordinari come il panico dettato da autorità inesorabili oppure la rabbia accesa in chi finisce così soltanto per aver sgraffignato una miseria. Ogni suono morì insieme a lui e al suo piccolo mondo sommesso, mentre nell’altro mondo lo accompagnavano due immagini: l’auto dei carabinieri sullo specchietto retrovisore, e quella del gigantesco tir che di fronte ai suoi occhi deboli e incerti come l’alba nascente s’ingrandiva con tutta la forza del rimorso.