Una catena di inquietanti omicidi, misteriose sparizioni, traffici sospetti e oscuri intrighi nell’antica Cina imperiale
Un uomo trovato morto in una biblioteca chiusa dall’interno. Causa del decesso: un tè avvelenato.
Questa scena potrebbe assomigliare a qualcosa di già visto. Ma le cose non stanno esattamente così. Non siamo infatti nell’Inghilterra vittoriana di Agatha Christie ma bensì nell’antico impero cinese della dinastia T’ang. E a indagare non troviamo quindi Hercule Poirot né Miss Marple. Titolare dell’inchiesta è il giudice Dee Je-djieh, la cui figura è ispirata a quella di un celebre magistrato vissuto dal 630 al 700 d.C., considerato uno dei grandi investigatori cinesi antichi.
L’omicidio precede l’inizio della narrazione e anche il primo giorno di lavoro del protagonista, che arriva a Peng-lai dalla capitale per sostituire il predecessore assassinato e allo stesso tempo per scoprire tutta la verità sulla sua tragica fine. Un collega cerca di dissuaderlo dall’accettare questo incarico che potrebbe incidere negativamente sulle sue possibilità di carriera. Ma lui è entusiasta della nuova prospettiva professionale, in quanto “stanco e nauseato di studiare i casi di criminalità … sulla carta!”.
Sin da subito Dee Je-djieh si rivela – non solo un ottimo magistrato, saggio ed equo nell’amministrazione della giustizia – ma altresì un detective dotato di un’arguzia e una tenacia straordinarie, fin lì forse un po’ nascoste dietro la maschera del pedante funzionario, sepolte sotto chili di polvere e burocrazia. Si circonda di alcuni uomini fidati, tra cui due ex briganti, redenti dalla sua coraggiosa fiducia e sottile opera di persuasione. La squadra si ritrova così a indagare, non solo sul primo delitto, ma anche sulla serie di enigmi che – come in un una reazione a catena – si susseguono uno dopo l’altro: un duplice e cruento omicidio, una morte da chiarire, una strana sparizione, un uomo che pare essere stato massacrato e poi scomparso, nonché episodi vari da cui sembrano desumibili le tracce di loschi traffici. Ciascuno di questi rebus sono al centro di un quadro separato in cui si muovono distinti attori. Ma emerge sempre più la stretta relazione di interdipendenza fra i vari drammi criminali e i relativi protagonisti, come in un sorta di domino o gioco delle scatole cinesi (sic!).
Attraverso le pagine di questo libro – scritto nella seconda metà del Novecento – è possibile immergersi in una Cina arcaica, dove assumono un rilievo fondamentale riti, cerimonie, tradizioni, codici morali, a partire dall’imprescindibile senso dell’onore. Allo stesso tempo però sono in qualche modo visibili i germi del presente, in questo che potrebbe forse definirsi un legal thriller del lontano oriente e anche ricordare certi feuilleton. L’investigazione del giudice Dee per certi versi ricalca mutatis mutandis l’inchiesta di un moderno sostituto procuratore nostrano o district attorney d’oltreoceano. Costui respira l’aria mefitica avvelenata da intrighi di palazzo e indovina l’esistenza di un fantomatico burattinaio autore della schiera di trame oscure mirabilmente intrecciate. E alla fine scioglie con sagacia questo gioco a incastro, portando così a termine il suo “incarico” più importante: quello di soddisfare l’ontologica curiosità del lettore e far trionfare l’irrinunciabile idea di giustizia letteraria.