Psicologia di un omicidio
Un giallo che potrebbe sembrare insolito, soprattutto in un’epoca in cui spesso i libri del genere avevano al centro della narrazione l’intrigo poliziesco di tipo puramente deduttivo.
I personaggi sono pochi ma ben delineati. L’autore scava in profondità nella loro psicologia, nelle loro motivazioni più palesi e anche in quelle più recondite. Ci rivela i loro sentimenti, sfaccettati e spesso a prima vista indecifrabili, attraverso l’azione e soprattutto i dialoghi frequenti e densi. Si può forse parlare di un noir, un thriller, un romanzo sentimentale mascherato da giallo classico?
La nostra storia comincia con la notizia di Sigsbee Manderson – un magnate dell’industria e della finanza – ucciso da uno sparo alla testa. L’ipotesi dell’omicidio pare suffragata, oltre che dalle evidenze scientifiche, anche dalla nutrita schiera di nemici che la vittima era riuscita nel tempo a coltivare. Ma, come quasi sempre accade – nei libri e ancor più forse nella vita reale – i principali sospettati sono i pochi intimi o comunque le rare persone che con la vittima hanno avuto un rapporto di vicinanza psicologica e spaziale.
Il romanzo è in certo modo anche una partita a scacchi virtuale fra il detective e – più che l’assassino, di cui naturalmente solo al momento debito il lettore conoscerà l’identità – la vittima. Entrambi a loro modo singolari.
Del secondo abbiamo già detto che è vissuto in un’atmosfera cosparsa d’odio (in gran parte almeno meritato), e possiamo aggiungere che viene riferito trattarsi di persona scaltra, pragmatica, abitudinaria, restia a suscitare sorprese, un concentrato di malvagità e grigiore, un tipo che non sembrava sprigionare empatia né suscitarla.
L’investigatore, Philip Trent, è un pittore, corrispondente di un giornale che fa affidamento sul suo straordinario acume per scoprire la verità su delitti in merito ai quali la polizia brancola nel buio.
Dunque un tipico detective dilettante – un topos soprattutto dei gialli di quei tempi – caratterizzato tuttavia in maniera assai originale. Si tratta di un uomo ironico, sarcastico, cinico. Non sembra mai prendersi né prendere le cose sul serio. Dichiara: “Il mio forte è l’immaginazione, ma posso assicurarvi che nel campo delle indagini l’esperienza ha molto più peso della fantasia”.
Un profilo basso che non deve però ingannare. E la dichiarazione d’intenti sul suo metodo d’indagine sembra in gran parte disattesa. Quando Philip Trent si reca sulla scena del crimine, analizza ogni traccia con meticolosità e una logica ineccepibile, degne degli investigatori più esperti. Da indizi scarni o all’apparenza non così significativi trae conclusioni decisive, sia pure affidandosi soprattutto all’intuizione perché le prove materiali scarseggiano.
Dunque, per tornare alla domanda iniziale, per certi versi almeno, si può dire semmai il contrario rispetto a quanto con essa ipotizzato. Siamo di fronte a un giallo in piena regola, scritto da un autore di cui – per i motivi sopra esposti e altri che non si possono menzionare per non rovinare la sorpresa finale – si apprezza sempre più la maestria pagina dopo pagina, mentre l’intrigo poliziesco e umano viene poco alla volta sciolto e l’attesa del lettore ripagata con un epilogo degno della migliore tradizione.